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Ultimo aggiornamento:   12/10/2015  l  15.31  
                               
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Kamlalaf, ricordi dall'Uganda (dove un pallone e' prezioso)
 

Kamlalaf, ricordi dall’Uganda

Sono rientrati ieri dall’Uganda, i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza di Kamlalaf insieme a volontari e operatori di Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo. Da casa, riescono finalmente a inviare frammenti di viaggio che portano nel cuore, e che problemi tecnici di connessione a Internet non hanno permesso loro di spedire nei giorni scorsi:

“Ad ogni Karimojon spettano due nomi: uno, simbolico, assegnato dal villaggio; uno, europeo, più facilmente pronunciabile. Sono venuta a conoscenza di questa particolarità subito dopo il mio arrivo a Moroto, quando una delle cameriere, che lavorano al Campoud che ci ospita, mi chiede: “What’s your name? And the second one?” E’ li che stranita rispondo: Mi dispiace, ho un nome soltanto. Così me ne assegnano uno loro: “Nakut”. Letteralmente significa “vento” e pensandoci bene non avrei preferito un nome diverso. E’ l’immagine che meglio descrive questo viaggio; un vento che da Sud a Nord attraversa la città, km e km immersi nella savana, fino ad entrare nei villaggi, a toccare le mani e i volti di coloro che li abitano. Un vento colorato dalla sabbia, di cui è ricolmo questo paese, sabbia che si posa sulla pelle, che a stento viene via.

Ogni giorno Moroto riserva esperienze nuove. Passare le giornate al villaggio di Loputuk, conoscere i progetti di “Child Protection” e le “Farmers School”, nate al nord del paese, è ciò che meglio mi ha permesso di affacciarmi a questa cultura, conoscerne qualche particolarità e rito, ma anche i grossi problemi e le forti contraddizioni. Appena inizi ad ambientarti è già il momento di ripartire alla volta di Kidepo, parco nazionale al confine col Sudan. Lì passiamo la notte, colmi di entusiasmo per aver visto giraffe, zebre, elefanti…..
Quello che in Europa chiamiamo crepuscolo e sera, qui dura pochi istanti. E’ giorno e un attimo dopo notte, come se fosse possibile spegnere il sole con un interruttore. L’oscurità isola, rafforzando il bisogno di stare insieme. Ci ritroviamo davanti al fuoco, con in mano il primo piatto di pasta della giornata, a cercare il Piccolo Carro sopra di noi.
Scrutando l’orizzonte, immersa in una savana che avevo visto solo in televisione, ripenso ai miei affetti, a mio nonno in particolare, a come io stia realizzando un sogno che è sempre stato il suo e a quanto sarebbe stato fiero di me.
Mi sento davvero privilegiata e questa consapevolezza, in fondo, non mi ha mai abbandonata…. Privilegiata per le persone che ho incontrato, per aver letto nei loro occhi e nei loro racconti la forza e la passione che le spinge a fare, di ogni giorno, una sfida  nuova. Per i luoghi che ho attraversato….copertina di un libro che racconta la storia di un viaggio che sembra essere ambientato in un altro tempo.
 Alice Bellagamba
 
La strana chimica della vita stabilisce, con spietato cinismo, la probabilità che un nascituro sia affetto da malattie genetiche o disabilità. Fortunatamente la percentuale di chi rimane colpito da handicap è molto bassa, mentre la pandemia che più di tutte è diffusa tra gli uomini, l’egoismo, trova tra i Missionari dei Poveri una solida eccezione perché essi ne sembrano immuni. I Missionari dedicano il loro tempo ai bisognosi accogliendoli in un centro a Kampala che ospita più di 300 persone tra bambini e anziani. La loro attività qui è ulteriormente complicata dalle abitudini sociali di chi deve far fronte alla povertà: abbandonare un bambino disabile o albino è d’uso frequente.
La visita dai missionari è stata l’ultima esperienza che mi ha scosso dentro. Mi è stato di sollievo, in questo senso, poter condividere le mie impressioni sulla visita, durante la sera stessa, con il resto del gruppo. Dal confronto è emersa a voce unanime la grande stima per la difficile ma gioiosa scelta di vita dei Missionari, che ai nostri occhi appare straordinaria quanto misteriosa.
Di maggior peso nel bagaglio che mi riporto a casa non sono i souvenir, ma i ricordi delle persone incontrate e degli affetti trovati in Karamoja, della cui inconfondibile terra rossa sono ancora sporche scarpe e vestiti che indosso.
Dopo aver colto negli africani la capacità di vivere alla giornata e godersene ogni attimo e dopo aver capito, grazie ai ragazzi delle scuole che ogni volta ci hanno accolto con danze e canti, l'importanza dell'ospitalità, ora immagino che al mio rientro mi risulterà complicato resettare la mentalità per affrontare un mondo frenetico che volge lo sguardo in particolare a guadagno, successo, scalata sociale e progresso.
Tutto questo perché mi sono veramente sentito parte di qualcosa che da pochi anni si sta avviando in questo grande continente, a me finora sconosciuto.   
La mia adesione agli ideali e ai principi che muovono tutto il lavoro dei volontari e dei cooperanti in Africa è fortissima, ed è per questo che non mi risparmio nell’esprimere aspettative e timori per il futuro del continente: vorrei che noi europei riuscissimo a sentirci sempre vicini ai bisognosi sforzandoci di non trasmettere agli africani il carattere frenetico del progresso facendo trapelare, invece, dal nostro esempio e dal nostro lavoro la mentalità dello sviluppo sostenibile, cioè utile per alimentare prospettive migliori.
Giacomo Cantù

Basta davvero poco per far felice dei bambini: sembrerà una frase scontata, ma posso dire di averne avuto esperienza più volte, qui in Karamoja.
Lopotuk è una “parrocchia” nei pressi di Moroto, ovvero un insieme di villaggi. E’ qui che alcune ragazze che collaborano con Cooperazione e Sviluppo hanno deciso di intraprendere un progetto di cooperazione di taglio e cucito: si tratta di un corso rivolto a giovani donne, che portano con sé i figli, ancora troppo piccoli per andare a scuola. Mentre le madri lavorano, le ragazze di C&S si occupano anche di intrattenere per alcune ore i bambini, e un giorno abbiamo avuto l’occasione di accompagnarle. Nonostante l’approccio iniziale difficile, dato che i bambini non sanno una parola in inglese, la mattinata si è evoluta nel migliore dei modi: se con il disegno era difficile catturare l’attenzione di tutti, pochi hanno saputo resistere al richiamo dei palloncini colorati, ma le bolle di sapone hanno mandato letteralmente in delirio il gruppo!
Al pomeriggio ci attendeva una nuova sfida: il pallone da calcio è un oggetto davvero prezioso per i bambini di Lopotuk (quelli un po’ più grandi), che spesso provvedono a costruirne uno con mezzi di fortuna (paglia e fango); a Kampala avevamo comprato un vero pallone, e ora i piccoli calciatori ci aspettavano in campo. Anche in quest’occasione, dopo lo smarrimento iniziale – organizzare una partita di calcio in una lingua sconosciuta appariva un’impresa impossibile – siamo riusciti nel nostro intento, certamente non solo per merito nostro: sono rimasto impressionato dall’ordine e dalla capacità di ascoltare di questi bambini, che seguivano con fiducia le indicazioni dei due più grandi, i nostri “traduttori”.
Se la costruzione di rapporti con i karimojon si rivela spesso problematica, credo che l’esperienza di questa giornata aiuti a riflettere. I bambini, per la semplicità delle loro intenzioni e dei loro bisogni, devono essere valorizzati all’interno dei progetti di collaborazione: essi, infatti, possono rappresentare il tramite tra uomini di culture apparentemente così diverse.
Daniele Castellana
 

 
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