Il Leviatano a Spazio 4. La testimonianza di Lino Aldrovandi
“Sopravvivere a un figlio è insopportabile”, a causa di alcuni poliziotti “incapaci di coniugare la nozione di sicurezza con il rispetto dei diritti umani, come garantisce il diritto democratico”, dice commosso Lino Aldrovandi, padre di Federico, giovane studente ucciso di botte a Ferrara, una mattina d’autunno del 2005. E’ la storia della morte di un innocente quella che è stata ricostruita ieri sera a Spazio 4 nel dibattito “Morire di controllo sociale: devianza ed usi incongrui delle polizie”, per iniziativa dell’associazione Kilausa di Irene Sposato, all’interno della rassegna Inpiccì, il festival che il circolo ricreativo giovanile propone da 4 estati a questa parte.
Una testimonianza sofferta quella del padre di Federico Aldrovandi che ha ripercorso tutte le tappe della tragica vicenda del figlio, deceduto a soli 18 anni, così come delle conseguenti fasi processuali che portarono alla condanna di 7 poliziotti . Federico Aldrovandi è morto fra la notte del 24 e il 25 settembre 2005, durante un controllo di polizia. A seguito dell’autopsia giudiziaria, sarebbero state riscontrate sul suo corpo 54 lesioni provocate dalla violenta reazione dei poliziotti “perché Federico non aveva i documenti”, come ricordato dal padre Lino. Fra questo avvenimento e l’esito del primo processo per i 4 poliziotti accusati delle violenze (condannati in primo grado a 3 anni e sei mesi nel luglio del 2009, ma che grazie all’indulto varato nel 2006 non sconteranno la pena) e i 3 accusati di omissione di atti d’ufficio (con condanne fra gli 8 mesi e 1 anno di reclusione inflitte nel marzo del 2010), una serie impressionante di depistaggi, omissioni e favoreggiamenti. A fine anno la sentenza di appello per i 7 poliziotti coinvolti.
Se il padre di Federico Aldrovandi ricostruisce minuziosamente i fatti che provocarono la morte del figlio, il giornalista di Liberazione, Checchino Antonini (che insieme a Lino Aldrovandi animava il dibattito) ne dà un’interpretazione più politica. Checchino Antonini è stato anche il giornalista che diede al fatto un rilievo mediatico nazionale, squarciando un silenzio che vigeva e che vige ancora nei media mainstream, poco inclini a trattare temi che possano rimettere in discussione un’istituzione fondamentale come la forza pubblica.
Antonini lega questo tragico evento con il contesto in cui viviamo: dalla rimilitarizzazione delle forze di polizia in cui “non si fanno più concorsi ma si entra attraverso esperienze militari e quindi si trovano poliziotti che hanno imparato a sparare sui civili a Kabul o a Baghdad e che adesso passeggiano sui nostri corsi e viali” alle responsabilità della società neo-liberista contemporanea “un sistema violentissimo che garantisce la libertà per pochi e per altri assicura un controllo sociale brutale”. Il giornalista di Liberazione attribuisce inoltre responsabilità precise al “clima di paura generato dalle politiche della cosiddetta emergenza sicurezza”, annoverando una lista che sembra non corrispondere a “delle vicende isolate”: Riccardo Rasman, Marcello Lonzi, Gabriele Sandri, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi e tanti altri. Un vero bollettino di guerra, mentre solo ieri è stato denunciato un altro episodio di violenza in una caserma dei carabinieri di Voghera ai danni di Isidro Diaz, un cittadino argentino.
Davanti ad un pubblico fatto di giovani, certamente “amico”, Checchino Antonini ha infine concluso che “non siamo insicuri perché c’e’ poca polizia, ma perché c’e’ questo tipo di polizia, violenta, brutale, allergica all’essere trasparente e ad operare all’interno del dettato costituzionale”.
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