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Chéri: la recensione di Piacenzasera

Una serie di ritratti in bianco e nero di dame belle e misteriose passa in rassegna, al ritmo allegro di una musica d’inizio secolo, davanti agli occhi dello spettatore. E’ la Belle époque, periodo relativamente breve ma decisamente intenso di vivacità culturale, progresso tecnico e scientifico, evoluzione e ‘svecchiamento’ dei costumi, declinato in vari modi, tra cui l’uso condiviso di droghe (cocaina, oppio e altre sostanze) e la pratica diffusa dell’adulterio. E’ anche il momento più felice dell’Europa, di lì a poco insanguinata dalla Grande Guerra.
Tra quelle donne affascinanti, tutte prostitute e amanti di teste coronate, uomini di Stato e grandi imprenditori, c’è la matura Leah, bionda ed esile seduttrice, ironica e colta, che dopo aver dato piacere ad un’infinità di amanti si prepara a ritirarsi dall’attività, ormai sempre più convinta che non ci sia maggiore soddisfazione di dormire da soli nel proprio letto. Lo stesso pensa Fred, il figlio diciannovenne di una sua ex collega, che lei ha tenuto a battesimo e che ha soprannominato Chéri. Distrutto da un periodo di feste, alcool e donne, Chéri ritrova la madrina a un pranzo combinato da sua madre, che lo spinge con discrezione tra le braccia dell’amica. La loro relazione durerà sei anni, finché Chéri non accetterà un matrimonio combinato con una ragazza della sua età.
Chéri ha il marchio di fabbrica di Stephen Frears (Le relazioni pericolose), una garanzia quando si parla di sentimenti e di cinema in costume ma soprattutto è tratto da due romanzi di Colette, scrittrice francese non conosciuta a sufficienza dal grande pubblico, ma autrice di pagine di letteratura che nella loro drammaticità disincantata verrebbe da definire sublimi. Splendidi sono Michelle Pfeiffer nei panni di Léa e Rupert Friend in quelli di Chéri, a cui fa da controcanto rozzo ma concreto la bravissima Kathy Bates, nel ruolo di Lolotte, la madre di Chéri. La loro relazione, esplicitamente anticonvenzionale e addirittura immorale una volta, paradossalmente più nei decenni successivi che nel periodo in cui è ambientata la vicenda, subisce i contraccolpi del perbenismo sociale, che li condanna per la differenza d’età, e della convenienza economica. Eppure i due incarnano l’archetipo fallibile dell’amore assoluto con ogni loro gesto, ogni capriccio, ogni lacrima malcelata o fuga in un paese lontano per cercare di dimenticarsi. Il merito del regista e degli attori è proprio questo: essere riusciti, ricostruendo certo un ambiente di per sé accattivante, fatto di architetture liberty e costumi sfarzosi, a rendere senza affettazione né leziosità il lato atroce dell’amore nel Novecento, non più rappresentato dallo stereotipo romantico, ma finalmente e tragicamente contemporaneo, per cui non è più semplicemente il destino ad unire e separare le persone, ma la loro stessa imperfezione, la loro incapacità di superare se stessi e il mondo che li accoglie a rendere certi amori impossibili.
 

 
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