Le mani. I polpacci. La bocca. Le dita e le braccia. Una cavigliera di conchiglie, un campionatore, una busta di plastica. Tutto si muove, tutto diventa corpo e strumento, si lancia in un viaggio che supera i confini geografici, copre distanze chilometriche e scopre le radici di una cultura universale. Questo voleva dimostrare con Afreecanos il musicista cubano Omar Sosa. E’ riuscito a fare molto di più con il concerto di ieri sera, in programma per l’edizione 2009 del Piacenza Jazz Fest, in un cinema “President” gremito di spettatori e stampa specializzata.
Accompagnato dal suo gruppo, un ensemble di quattro musicisti, Sosa ha dato un’incredibile prova di talento, lasciando il pubblico a bocca aperta, spalancando una finestra sul suo mondo pieno di energia e ricco di contaminazioni che dai ritmi dell’Africa si spostano alle melodie popolari cubane, attraversano le forme più sofisticate del jazz e toccano persino la tradizione della musica classica europea. Il tutto con una naturalezza abbagliante e un indescrivibile, contagiosissimo entusiasmo, lasciando spazio all’improvvisazione e a quel divertimento che per ogni musicista dovrebbe essere la causa principale di ogni suo gesto, insieme al desiderio di esprimere se stesso, la propria origine, la propria cultura. Che, con Omar Sosa, si scopre essere un bene comune all’umanità. O almeno a una sua parte. Perché quel che si dice “suonare uno strumento”, con il pianista cubano, è qualcosa di molto più intenso, difficile, coinvolgente e disarmante di ciò che hanno in mente molti di noi. Quasi divino.
Alessia Strinati
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