Secondo appuntamento, stasera, per la rassegna Cineclub al cinema Iris. Sarà proiettata la pellicola "Diario di un curato di campagna" di Robert Bresson.
Ecco la scheda:
"Diario di un curato di campagna" R. e sc.: Robert Bresson. Int.: Claude Laydu, Nicole Maurey, Joan Riveyre. Francia 1951, b/n, 110’.
Un giovane sacerdote appena uscito dal seminario diviene parroco del piccolo villaggio francese di Ambricourt. Guidato da un forte senso del dovere e da una profonda fede, il giovane prete è indotto ad occuparsi della situazione esistente nella famiglia di un conte.
Questi ha una relazione con la governante della sua figlia adolescente Chantal mentre la contessa, trascurata dal marito e ossessionata dal ricordo di un figlio morto bambino, è ribelle a tutti e non si cura della figlia. Il giovane parroco si avvicina alla donna ed inducendola ad una confessione completa la riavvicina alla fede: la notte seguente la contessa però muore.
Intorno al giovane curato si crea un clima di ostilità crescente sino a che egli, malato di cancro, morirà dilaniato nel corpo, ma certo della grazia divina.
«A Bresson, il giovane regista, autore del pregevole La conversa, di Belfort, va riconosciuto il merito di aver voluto coraggiosamente seguire una strada propria, scartando a priori tutto ciò che nel romanzo di Bernanos poteva sembrare già «cinematografico » nel senso superficiale della parola. Così, pur restando intimamente fedele alla sostanza e allo spirito del testo, egli lo ha ricreato con un suo linguaggio particolare. Infatti, se l'arte di Bernanos è fatta di dinamismo e di movimento, Bresson (il quale, non dimentichiamolo, viene dalla pittura) ha impostato il suo racconto su una serie vigile e preordinata di immagini sorvegliatissime, che esprimessero senza violenza di effetti esteriori quelle verità che appunto sgorgano dal profondo dello spirito e che devono essere raccolte dallo spettatore in un clima di pacata e non distratta concentrazione. Proposito avveduto e intelligente, che allontanando l'opera dal pericolo della commozione facile e della vistosa esteriorità, l'avvicinava per altro a un altro rischio non sempre evitato: quello di una eccessiva raffinatezza letteraria, dell'inevitabile freddezza che nasce da un'aprioristica tendenza alla composizione pittorica. E se, specie nella seconda parte, l'innegabile altissima vitalità della materia e la magnifica interpretazione del giovane protagonista Claude Laydu escludono tale processo di raggelamento, altrove, e segnatamente nella lunga parte iniziale e introduttiva del dramma il Diario può apparire un'opera di pochi fremiti e di molti indugi, così come l'espediente dei brani di diario scritti o ripetuti da una voce fuori campo, in funzione di commento e di raccordo dei singoli episodi, potrà essere tacciato di comodo ripiego e indurre qualcuno a parlare di frammentarismo: una frammentarietà che però esiste solo in apparenza, come fra le pagine staccate che tutte insieme formano il diario di un'anima. A parte questi rilievi, […] va ripetuto che quest'opera austera e coraggiosa, lenta e sussurrata, che unisce a un'elevatissima altezza spirituale una così raffinata, e aristocratica veste esteriore (tutte le inquadrature esterne, pur discrete, hanno una mirabile forza evocativa, la musica di Grunenwald è funzionalissima, la fotografia plumbea e il sonoro sono impiegati sempre in relazione all'essenza desolata, e angosciosa del dramma) è uno dei grandi traguardi a cui sia giunto il cinema, uno dei rari film per cui si possa spendere la parola «poesia». Il suo titolo d'onore è quello di aver osato con successo avvicinare la macchina da presa, a una tempesta interiore, tradurre senza stridore nella concretezza sempre un po' massiccia delle immagini il tormento tutto sotterraneo di un'anima, l'arsura di un fuoco invisibile. E se il film è riuscito a tanto non poco merito va al giovane e intelligentissimo protagonista. Con una sensibilità e una capacità di penetrazione davvero eccezionali, Claude Laydu è stato il miglior collaboratore del regista. Ricorderemo a lungo il suo viso infantile e sofferente di predestinato, i suoi occhi che dicono assai più che le parole e dove passano turbamenti ed estasi, la pena dell'incomprensione e la gioia «di poter donare quello che non si ha, il miracolo di queste nostre mani vuote».